David Campany ha un talento raffinato nel scegliere l’oggetto del suo discorso tra le innumerevoli opere che hanno fatto la storia dell’arte recente, nell’individuare i lavori che di questa, dell’arte, non siano riflessi illusionistici, ma dei veri e propri esempi, contraddistinti da una loro spettacolarità contingente e da un’universalità sintetica: Campany li riconosce all’interno di un labirinto intricato di opere e li descrive analiticamente, posizionandoli all’interno di un orizzonte storico e culturale.
Qui sceglie un lavoro dell’artista britannico Victor Burgin, “Photopath”, capace di contenere in sé limiti e possibilità della fotografia tout court, esemplare, appunto, nella sua capacità di rappresentare importanti nodi filosofici e concettuali che hanno caratterizzato e continuano a caratterizzare, seppur in maniera alquanto diversa, l’arte contemporanea; di tutto questo “Photopath” è un esempio, attraverso un gesto apparentemente semplice, ma in realtà assai complesso, come quello di posizionare una fotografia di un pavimento proprio sul quello stesso pavimento.
Con “Photopath”, Campany riflette in queste pagine sulla relazione tra parola e immagine, sull’ideazione di un’opera, quindi su cosa significhi predisporre le sue condizioni necessarie e sufficienti, così come sulla realizzazione di questa, quindi sulla necessità di uno scarto, formale e cognitivo. La scrittura di Campany è relazionale, l’elaborazione discorsiva di una mappa concettuale, che si compone di analogie tra l’opera di Burgin e altri lavori di artisti suoi colleghi, così come di riferimenti ai padri dell’arte contemporanea – Duchamp – e della fotografia – Fox Talbot -, e all’interdisciplinarità di un’arte contemporanea, nella quale molto è svolto dall’analisi semiotica dei media stessi.
L’approccio analitico di Campany non esclude la possibilità di lasciarsi travolgere dal mistero che, per parafrasare Francis Bacon, ogni artista dovrebbe contribuire ad amplificare: un mistero, una sospensione, un’incertezza che qui aleggia nel momento in cui il critico inglese affronta la questione dell’autonomia dell’arte, tanto insopprimibile desiderata quanto indicibile chimera.
Questo libro di Campany è l’ideale per chiunque voglia ripensare l’ontologia e la funzionalità del medium fotografico, viste attraverso un’opera unica, sui generis ed eccezionale, proprio per questo possibile conferma di regole, se crediamo ce ne siano. In lingua inglese.