Il Signor Mirabile
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Descrizione
L’incipit di questo racconto illustrato non lascia dubbi; siamo di fronte a una fiaba contemporanea. Solo che qui il “c’era una volta” con cui il premio Nobel Olga Tokarczuk sceglie di iniziare la sua storia non è garanzia di lieto fine. Anzi.
La scrittrice polacca intreccia finzione e realtà, visioni più reali del reale e fatti plausibili, indesiderati, amari e graffianti indicatori di un consumismo capitalista il cui futuro distopico è già presente.
Mirabile: che desta grande ammirazione, si legge sul dizionario.
Il protagonista del racconto è definito tale. Ne vediamo le fattezze prima di leggerne, perchè Joanna Concejo nel suo prequel quasi cinematografico descrive visivamente un’ipotetica infanzia del protagonista; la sua vita prima dell’età adulta viene raccontata dall’illustratrice attraverso una carrellata di disegni “fotografici” che lo ritraggono infante in braccio alla mamma, bambino insieme ad altri suoi coetanei, adolescente al ballo scolastico.
Lui, un egocentrico il cui narcisismo viene alimentato da adulatori che saranno la sua condanna, è vittima della propria mania ambivalente: scattarsi selfie. A differenza di Antonino Paraggi, protagonista di “L’avventura di un fotografo” di Calvino, il signor Mirabile è sia da un lato sia dall’altro della macchina fotografica, il che non può fare altro che raddoppiare le nevrosi connesse a una costante esposizione ai clic.
Il Signor Mirabile non è bello, o meglio, Tokarczuk non sceglie (quasi) mai questo aggettivo per descrivere il suo aspetto, come a ricordarci che la bellezza in sè è un’idea troppo vaga e che narrativamente parlando, necessita di essere spiegata altrimenti, attraverso aggettivazioni più specifiche, caratterizzanti, dal possibile risvolto psicologico.
A darcene le fattezze fisiche è Joanna Concejo, almeno per la prima parte del racconto; poi, quando gli sguardi di sconosciuti avranno consumato il viso del signor mirabile, quasi attraverso un contrappasso dantesco, anche a noi lettori non ce ne rimarrà solo che un ricordo.
L’inquietudine delle immagini di Concejo sta nel loro essere finzione realistica, la loro paranoica ripetizione del corpo in realtà non è sinonimo di presenza, ma di assenza.
Questo libro, che potremmo definire un libro meta-fotografico, sulla fotografia senza che le sue immagini siano realizzate con la macchina fotografica, invita a riflettere su quanto il nostro io fotografico influenzi la nostra esistenza, i nostri desideri e progetti di vita.
Olga Tokarczuk e Johanna Concejo dimostrano come, a quasi un secolo da “Art and Morality” di D.H. Lawrence, per cui “l’identificazione di noi stessi con l’immagine visuale è diventata un istinto”, un istinto già vecchio nel 1925, il nostro io fotografico, oltre che impazzire, si sia instupidito, a discapito di una bellezza tale, invece, perchè originale, singolare, diversa.
Questo libro pubblicato da Topipittori diventa un must in una bibliografia sulle immagini, sulla loro ubiqua invisibilità, sulla loro aura irrimediabilmente persa e sul loro essere specchio di una società e delle sue antinomie.
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