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“Il Deserto di Lop”

Nel leggere il finale di questo romanzo, il primo tradotto in italiano dello scrittore austriaco Raoul Schrott, il lettore sarà come investito da una rivelazione: sarà un po’ come chiudere un cerchio per prendere le distanze dalle contingenze quotidiane e cercare di guardare alle cose da una certa distanza. Una volta terminato il libro, il lettore prenderà consapevolezza di forme, pattern, figure, motivi e rimandi che costituiscono il romanzo e ne creano l’ossatura; similmente a un mantra, a una ripetizione del non-uguale, “Il deserto di Lop” ci disvelerà molto di noi stessi, dei nostri incagli, insabbiature, attrazioni e desideri.

Raul è il protagonista di questo libro; un uomo di cui conosciamo l’età, il luogo in cui è nato e poco altro: un personaggio impossibile da incasellare, introspettivo ma non incline alle ruminazioni; romantico ma non tormentato, sereno nell’accettare le trasformazioni dell’amore; un nomade senza attaccamenti alle cose, se non a tre: una pigna, un gris-gris e una pietra.

Di Raul conosciamo gli spostamenti: Italia, Egitto, Algeria, Giappone, Cina, sono alcuni tra i luoghi in cui trascorre parte della sua vita, di cui osserva e onora gli elementi naturali, sue guide spirituali, relazionandosi con e sentendo il paesaggio.

“Il deserto di Lop” è un libro che si può leggere con a fianco un atlante: sarà molto affascinante cercare sulle mappe i deserti, le valli, e altri luoghi remoti e meno remoti che Raul raggiunge nelle sue esplorazioni senza sosta del mondo.

Questo è infatti un romanzo sullo spazio, ma anche sul tempo e sul suono.

Sullo spazio: Raul e i suoi compagni si muovono in uno spazio che è geografico, corrispondente a posti fisici precisi; è geometrico, per cui il cerchio è l’elemento simbolico che torna continuamente, non solo come configurazione temporanea della sabbia del deserto, ma anche nella struttura narrativa del romanzo stesso, e, non da ultimo o a caso, nell’immagine grafica scelta per la sovraccopertina; è uno spazio interno, dove ontogenesi e filogenesi si sovrappongono, simile a quello delle fiabe, tanto lontano e indefinito, quanto vicino ed esatto.

Sul tempo: principalmente interno, esistenziale, psicologico ed emotivo, diverso da uno convenzionale, misurabile da tutti, che vanifica ogni tentativo di posizionare un avvenimento dietro l’altro, di analizzare il racconto attraverso la lente del prima e del dopo, della causa e dell’effetto, di un possibile principio di non contraddizione. Il tempo qui diventa un essere vivente: una “spiga erbosa [che] disegnava un cerchio perfetto nella sabbia, come un orologio che non conosce ore”, una pianta la cui vita è complementare alla nostra, un dettaglio, piccolo, di non poca importanza, metafora di una vita umana tanto perfetta quanto precaria. Non è il tempo lineare del progresso, ma quello ciclico dell’infinito.

Sul suono: fin dalle prime pagine, è evidente come “Il deserto di Lop”, libro silenzioso, capace di mettere a tacere le rumorose interferenze di una civiltà contemporanea, meditativo, introspettivo, essenziale, sia un omaggio ai suoni, che nascono dall’ incontro-scontro di elementi naturali, e alla musica, che scaturisce da un votivo ascolto umano della natura, dalla nostra attenzione quasi religiosa verso ciò che ci circonda da sempre e che esiste da tempo immemore.

E, ovviamente, questo è un romanzo sul deserto, ovvero su quel luogo di cui, credo, si comprende il significato solamente se viene esperito personalmente, che affascina e inquieta, attrae e respinge, ma che Raul e il narratore (sono due persone distinte?) sanno descrivere con la giusta elisione, attraverso un equilibrio simbolico tra detti e non-detti, tra presenza e assenza; sicuramente un luogo epifanico, dove il “poco” materiale corrisponde a un “molto” interiore, la mancanza di comodità a un’eccedenza di consapevolezza.

Pubblicato da La Grande Illusion

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